Introduzione alla lingua siciliana

Un populu,diventa poviru e servu quannu ci arribbanu a lingua (Ignazio Buttitta) ASCOLTA la lingua siciliana

Un populu, diventa poviru e servu,
kuannu ci arobanu a lingua
(Ignazio Buttitta) ASCOLTA

Nella comunicazione degli umanoidi, diversamente dagli altri esseri viventi del mondo animale, si è passato dal linguaggio dei versi e dei gesti al linguaggio delle immagini attraverso il linguaggio grammaticalmente articolato delle lingue popolari delle Nazioni in Italia (vedi il siciliano, vedi il veneto, vedi il friulano, ecc.) e delle lingue ufficiali degli Stati (vedi italiano, francese, spagnolo ecc.). Oggi, la comunicazione vuole essere immediata: se si pensa, per esempio, ai messaggi che si inviano con i telefonini, messaggi dove quasi più non ci si sono le vocali, e dove le stesse consonanti sono semplificate, si può affermare che i vocaboli non vengono più letti ma “osservati” come fossero dei disegni, un po’ come avveniva nelle antichissimi lingue mediterranee e non solo, quando si comunicava per simboli e simbolismi. Uno dei motivi per cui alle ampollose, sofisticate, farraginose a volte spocchiose lingue volgari mediterranee si cominci a preferire la essenzialità comunicativa della lingua inglese degli U.S.A., fa paradossalmente ritenere che una lingua antica come è il latino incontrerebbe maggiori favori delle lingue volgari moderne da questa derivate. Questo spiegherebbe anche il perché in Italia è attuale l’interesse verso i cosiddetti dialetti non imbrigliati da rigide costruzioni lessicali, semantiche e sintattiche: in pratica, una lettera in italiano di due pagine si dimezza se scritta direttamente in siciliano, così come per tradurre la frase che segue occorrerebbero molte più parole utili a spiegare quello che poi è il credo “del mafioso-dio”: ‹‹u valuri di un uomu si misura in basi a chiddu ca all’autri di beni e di mali si voli fari, si po fari, si sapi fari e si fa››. Ebbene, questa frase, già essenziale nella sua costruzione, può essere anche visivamente contratta utilizzando uno strumento che va sotto il nome di “tavola grafica”. Di questo si parlerà nelle varie pagine del sito.

Criticità
Voglio però prima spendere qualche parole sulla storia recente di questa porzione del pianeta in cui maturò una lingua, quella siciliana per l’appunto, caratterizzante una nazione che pure  si era data una bandiera, una moneta, un inno, un corpo diplomatico, un esercito, una marina militare ma anche mercantile e, prima tra i popoli europei, un parlamento la cui assise si tenne a Mazara niente meno che nel 1097. Ma volendo sfogliare ancora qualche pagina della storia di Sicilia non si può non ricordare che il giovane Stato sovrano dell’XI secolo, unico al mondo in tutti i tempi, aveva ottenuto da Urbano II la Legazia Apostolica (concessa nel 1098, cesserà con Pio IX nel 1871).

Palermo storiaCome noto, la Sicilia, i cui confini amministrativi si spingevano sino a Cittaducale e alle cascate delle Marmore, sarà “regno” per oltre sette secoli (1130 – 1860) sotto la guida di una quarantina di sovrani e, contrariamente a quanto si crede, sempre per successione dinastica meno che nel caso degli angioini (comunque cacciati via con l’epica rivoluzione dei “Vespri siciliani”) e dei sabaudi (che però si ancoravano ad Adelaide del Monferrato moglie del Gran Conte Ruggero). Il suo trono fu molto ambito, basti pensare che tra il 1713 e il 1735 vi si sedettero, nell’ordine, ben quattro potentati (spagnoli, savoiardi, austriaci, borbonici) e che con la sua annessione al novello Regno d’Italia contribuì alla riserva aurea con oltre 440 milioni di lire del tempo, contro i circa 220 milioni degli Stati preunitari (regno Lombardo-Veneto, ducato di Parma, ducato di Modena, regno di Sardegna-Piemonte, granducato di Toscana, stato Pontificio).
Purtroppo la sua nuova collocazione politica accentuò un processo di arretramento del proprio idioma a tutto vantaggio della lingua italiana che, ironia della sorte, proprio la Sicilia aveva fortemente contribuito a formare. Questo studio ha lo scopo di ricostruire il percorso storico-ortografico della lingua siciliana.

Disinformazione
Quelli che riteniamo di sapere parlare in siciliano sappiamo anche scriverlo? Per poter dare la giusta risposta a questa domanda non è male consultare le prossime pagine nelle quali espongo nella maniera più semplice possibile “la chiave della corretta scrittura siciliana” in modo tale da consentire a chiunque lo voglia di riuscire a scrivere in lingua siciliana senza incertezza alcuna.
Abbiamo veramente voglia di conoscere la glottografia siciliana? Scorriamo le prossime pagine di questo sito.
Una cosa è certa: l’idioma siciliano non deriva dalla lingua italiana ed è esso stesso lingua nobile e antica, e usare l’alfabeto italiano per scriverlo non gli rende giustizia, anzi lo degrada sempre di più. Facciamolo risorgere! Quello siciliano è un idioma che, anche se con segni grafici prestati, ha promosso letteratura scritta di valenza  universale. Sarebbe un suicidio culturale non alimentarlo almeno solo proteggendolo dalle aggressioni delle lingue oggi dominanti.

Non è un caso che colti siciliani, pur padroni del linguaggio italiano forbito, ricorrono sempre più spesso al proprio parlato allorquando interloquiscono con colleghi e amici, o con parenti, o nei momenti  di ira o di passione o di gioia o di scherzo. Non contentiamoci più di raggirare l’ostacolo sicilianizzando l’italiano o italianizzando il siciliano (l’hanno fatto grandi come Verga e Pirandello, Martoglio e Di Giovanni, D’Arrigo e Camilleri, ecc.) ma riappropriamoci, con coraggio e passione insieme, del nostro bello scrivere!
Ci pensate se le insegne dei negozi che ieri venivano scritte in italiano e oggi in inglese tornassero ad essere scritte in siciliano come avveniva l’altro ieri? A quel tempo, nella Palermo dei primi decenni del ‘900, all’ingresso di quello che oggi verrebbe detto un fast food, vero e proprio “McDonald” ante litteram, faceva bella mostra di sé la scritta “Cca Vussia trasi”: era un locale in quel di piazza San Domenico dove si potevano gustare specialità (panelle, pane con la milza, ecc.) accompagnate dal buon vino di botte e da allegra compagnia di buontemponi.
Prima di passare alle regole grammaticali e ortografiche (solo cenni, ovviamente) mi piace però sviluppare alcuni concetti già accennati e enunciare degli assunti prendendo spunto da un episodio cui ho personalmente assistito e che mi ha lasciato esterrefatto e amareggiato in quanto a sostenere che i siciliani non debbono parlare il siciliano
è stata una persona intelligente e colta, giovane e brillante, per molti versi seria. Intanto, secondo me, un abitante di Sicilia il quale precisa (bontà sua, come non fosse scontato) ad altro conterraneo sentirsi orgoglioso del proprio essere siciliano diventa poco credibile se tale affermazione non la fa nella sua lingua natia. Allorché poi ti precisa che gli fanno profonda pena i bimbi siciliano-parlanti i quali, sempre a suo dire, perderebbero tempo con il dialetto rubando spazio al perfezionamento della lingua italiana, ed essendo, l’esprimersi in dialetto, indice certo di indigenza culturale e di arretratezza mentale, non resta che tirare le somme e pensare con amarezza a quanto abbia negativamente inciso nella formazione culturale della gioventù la falsa educazione scolastica tesa a far dimenticare ad un intero popolo nientemeno che la propria lingua.
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Ma se è per questo, c’è chi pensa di sostituire l’italiano con la lingua inglese (e, chissà, un domani, forse, l’inglese con altra lingua, che so io, l’arabo o il cinese), ignorando che le lingue dei popoli non sono barzellette ma lentissime evoluzioni cerebral-culturali, coinvolgenti anche adeguamenti anatomici della glottide, e dimenticando il messaggio biblico della torre di Babilonia nonché il fatto esemplare che dal latino imposto, ad esempio, sono derivate moltitudini di lingue che contribuirono al crollo miserevole dello impero e della capitale.
Non vogliono comprendere, molti, che nelle lingue d’importazione si possono solo trovare forme nuove di comunicazione per le pratiche burocratiche, o per gli atti pubblici, o per messaggi pubblicitari e/o commerciali, o per le prassi informatiche, o per i saggi specialistici, ma che mai queste potranno soppiantare le espressioni linguistiche delle parlate locali nel quotidiano interagire o nella creatività del pensiero poetico-letterario. D’altronde, conosco un professore di lettere il quale sostiene, che sino a quando in Sicilia ci sarà qualcuno che parlerà siciliano, la mafia non potrà dirsi del tutto sconfitta e che educare i ragazzi a pensare-parlare in italiano equivale ad allontanarli dalla tentazione di indulgere all’associazione malavitosa.

Constatazione
Siccome questo non è un corso di storia della letteratura siciliana, evito di commentare in maniera specialistica un simile episodio, solamente mi limito a dire che Baschi e Scozzesi e Irlandesi, quelli alfabetizzati s’intendono, pur non trascurando la loro lingua madre sanno ben capire-parlare-scrivere rispettivamente in spagnolo o in francese, gli uni, e in inglese, gli altri. Quello che ora mi preme, partendo dalle certezze, è di fissare due paletti che facciano da guida allo spirito dell’intero corso.

Certezze:
• il siciliano non è un dialetto della lingua italiana;
• il siciliano è ben vivo in una larga area geografica del Mediterraneo, dove è capito-parlato in ben quindici isole ed in alcune aree del meridione della penisola italica;
• il siciliano ha una vasta letteratura scritta;
• il siciliano ha propri fonemi caratterizzanti:

Paletti:
• 
il siciliano, che da qualche secolo a questa parte ha preso in prestito le lettere dell’alfabeto italiano e che taluni dicono possa esso scriversi in qualsiasi modo si voglia, deve essere scritto correttamente secondo le regole universali di ortografia dettate più dal buon senso che dalla conoscenza delle scienze arcane;
• il siciliano, almeno per quanto riguarda la scrittura, deve trovare una propria koinè unificante tutti i suoi dialetti partendo dai segni grafici già utilizzati per la trascrizione del parlato quando la Sicilia era Stato Sovrano e risalendo alla derivazione dei singoli vocaboli per poter adottare la forma più idonea tra le sue varianti.
Dei fonemi caratterizzanti dirò appresso; quello che in questa premessa voglio evidenziare è invece un’altra caratteristica del nostro modo di esprimerci, ossia la costruzione di alcune frasi che sembrano dire l’esatto contrario del loro reale significato.
Esempi (in siciliano-italiano non avendo ancora fornito ai navigatori sul sito la chiave della scrittura siciliana-siciliana):
1)      “ora vegnu” sta per “verrò quando e se avrò tempo e voglia”;
2)      “staiu turnannu” sta per “esco non si sa per quanto tempo”;
3)      “eni dintra” sta per “si trova in casa”;
4)      “moviti ddoku” sta per “stai fermo”;
5)      “mi ricogghiu a la casa” sta per “rincaso”;
6)      “mi n’acchianu a lu travagghiu” sta per “vado a lavorare”;
7)      “comu nesci?” sta per “come si chiama?”;
8)      “arriminati” sta per “sbrigati;
9)      “ancora?” sta per “stai fermo, stai zitto, ecc.”;
10)   “beddu” sta per “buono”;
11)   “ladiu” sta per “bello” a seconda del contesto e della cadenza;
12)   “bonu” sta per “basta così” a seconda della circostanza;
13)   “basta ca ni salutamu” sta per “non ti voglio più vedere”;
14)   “mi nni stuiu u mussu” sta per “non me ne voglio interessare”.

EriceAncora continuando si può evidenziare che “t’ammazzu” non significa sempre “ti uccido”, che “mizzica chi successi” può anche significare che non è successo proprio nulla, che “nun successi nenti” può voler dire che siamo di fronte a una vera e propria catastrofe, che “buttana”, “dilinquenti”, mafiusu”, “curnutu”, “cosa tinta”, ecc. puó essere sinonimo di apprezzamenti ed elogi, ecc.
Una cosa è certa, comunque, che chi seguirà questo corso non potrà più sentirsi autorizzato, per invocazione dell’ignoranza, a scrivere brutture del tipo miccassira… (mi getterei dalla…),  ossabiri… (voscenza guardi),  ulla vi… (non c’è l’ha),  acca mora… (per ora),  ciafficu fuotti… (traffico intenso), ppa vannu… (per quest’anno),  luisciu… (lustro), cuamu luavu…(come l’uovo), sieitti… (sette), un putiamu piaiddiri… (non potevamo perdere),  azzà…(la zia), annaraviri …(devono avere), ra miccè…(della Mercede), boli… (vuole),  picciuoittia… (picciotta),  cainni… (carne),  pimmia… (per me),  ca scoccia… (con la scorza), ecche è… (che c’è),  assiettica… (siedi qua),  miva cuicchiu… (vado a coricarmi), rapa la puoittia… (apri la porta),  ciabbampa… (gli brucia), ecc., cose purtroppo spacciate per buone – e incoraggiate – da sapienti universitari e cultori professionalmente disonesti, né avrà più l’alibi di potere tradurre il siciliano “scappau u vugghiu” nell’italiano “scoppia il bollo” quando ci si riferisce all’acqua della pentola in ebollizione. No, questa non è lingua siciliana.

Ora basta, leggete le prossime pagine con me, Filippo Maria Provitina di Agira “naturalizzato” palermitano, primo in tempi moderni ad averle concepite, e vi riapproprierete dei segni siciliani inseriti nella prospettiva della loro negata ma possibile evoluzione con il metodo – sviluppato nella Kademia du Krivu – della utilizzazione delle forme parallele più avanzate.

Bonu statu e libirtà (…di usari u propriu linguaju)